Ciao! Ben ritrovatǝ e buon lunedì! ☕️
Questa settimana vorrei condividere con te una riflessione che stavo facendo nei giorni scorsi, nata da un mio vissuto personale.
Quando impariamo a fotografare, il nostro cervello e il nostro modus operandi viene riempito da una serie di buone pratiche che hanno a che fare con la struttura della fotografia stessa, con il fatto che conosciamo bene la nostra macchina fotografica, che sappiamo post produrre e che abbiamo capito come si ottengono delle belle immagini.
👉🏻 Quest'anno per spingere un po' di più sulla mia crescita 💥, ho deciso di investire tempo e denaro in un programma di mentorship individuale, che mi accompagnerà per tutto il mio 2024, perché mi sono resa conto di essermi assuefatta al mio modo di guardare e di usare sempre nello stesso modo la mia attrezzatura.
Come ogni allieva, sono arrivata al momento della mia prima revisione mensile ed ero abbastanza tranquilla che magari, non proprio su tutto, ma che comunque in generale ne sarei uscita bene.
E invece no, ne sono uscita con le ossa rotte.
Se volessi riassumere in una frase, il commento generale alle mie immagini è stato più o meno questo: “Stai facendo solo le foto che farebbero tutte le persone con la tua competenza ed esperienza, foto che tutti si aspettano da te, fatte in quel modo. A me queste foto non interessano, io voglio altro.”
Mi ha stesa, in senso positivo naturalmente.
Il suo commento mi ha da subito vibrato tantissimo, perché sento che c'è tanta verità in questa analisi.
Dopo qualche giorno esco di nuovo a scattare e mi ritrovo a guardare lo stesso mondo, sempre con la stessa macchina fotografica in mano, con tutte le mie conoscenze in corpo, dopo quella valutazione così lucida e disarmante.
Penso: “Bene, ho già fatto quindi tutte le foto che tutti farebbero con le mie competenze e ho fatto già anche le immagini che tutti si aspettano da me e quindi ora cosa scatto?”.
Ho sentito una fragilità intensa pervadermi le viscere.
E’ stato un sentire così diffuso in ogni singola cellula del mio corpo, che non lo potrei davvero rendere a parole ma è stato lì che ho capito che per la prima volta stavo guardando il mondo con vulnerabilità, lasciandolo entrare in me senza filtri.
Accadeva quindi qualcosa di incredibile: uno sguardo nuovo, libero e impaurito senza la sovrastruttura della conoscenza che porto dentro.
Credo che essere vulnerabili finché si guarda, possa realmente svoltare il modo in cui fotografiamo.
Ovviamente quel giorno sono riuscita a scattare ma molto poco, perché per me è stato disarmante sentirmi così, non ero pronta.
Ora quella vulnerabilità la sento ancora e spero di sentirla ancora a lungo, perché è una spinta forte a cercare di cambiare sguardo e crescere.
Non so se ad alcuni di voi questa cosa che ho scritto ha risuonato, ma per me è stato come una folgorazione sulla via di Damasco.
Tempo fa scrissi una newsletter sul fare foto brutte, la scrissi in maniera anche provocatoria per lanciare una riflessione che smuovesse i vostri cervelli, ma oggi, quella roba c'è l'ho davvero sottopelle e confermo che funziona proprio così.
Vi terrò aggiornati sul mio sviluppo fotografico, perchè nessuno nasce imparato su tutto (anche se sei professionista da quasi 15 anni) e il processo di apprendimento che una persona può intraprendere è pressochè infinito e se cresco io, potete crescere anche voi con me.
Un abbraccio
Silvia
È una sensazione che ho ormai quasi sempre quando vado a fare foto, mi domando spesso come riuscire a vedere lo stesso soggetto in modo differente e di conseguenza a fare una foto diversa dalle mie solite. Evidentemente non ho una risposta!